Imparare e insegnare l’italiano come seconda lingua

Titolo – Imparare e insegnare l’italiano come seconda lingua
Autore – Gabriele Pallotti – A.I.P.I. Associazione Interculturale Polo Interetnico
Editore – Bonacci
Anno – 2005

Questo video per la formazione di insegnanti e operatori fornisce gli strumenti necessari a coloro che hanno il compito di accogliere bambini stranieri nelle scuole e nei centri extrascolastici per insegnare loro la lingua italiana.
Attraverso interviste a esperti, riprese in classe, analisi di casi, il video propone un percorso di formazione che tocca i temi più importanti della didattica dell’italiano a stranieri: l’organizzazione della scuola, il rapporto con la famiglia e le culture di origine, lo sviluppo del sistema linguistico, le pratiche di insegnamento più innovative.
Il video è corredato di un testo che comprende:
– sviluppi teorici delle nozioni presentate nel video;
– suggerimenti per l’uso in attività di formazione e auto-formazione;
– trascrizioni delle produzioni in interlingua e delle attività didattiche per facilitare l’analisi;
– indicazioni bibliografiche e altre risorse per trovare informazioni utili e approfondimenti.
Il corso di formazione è composto da:
• un DVD
• un libro

La scuola dei giochi

AUTORI: Pier Aldo Rovatti, Davide Zoletto
TITOLO: La scuola dei giochi
CITTà: Milano
EDITORE: Bompiani
ANNO: 2005

“Un pamphlet su come fare scuola”, così U. Galimberti l’ha definito sulle pagine delle Repubblica (19 aprile), lasciando intendere che il testo oggetto di recensione avesse una funzione propositiva, se non addirittura profetica.
Io non sono d’accordo. Il volume ha soprattutto una funzione di dichiarazione, di testimonianza.
L’opera si divide in due: da un lato le pagine che deliziano filosofi astratti (il ragionamento si traduce in giochi di parole; è la parte curata da Rovatti), dall’altra, un’analisi acuta e precisa dello status quo della scuola (è la parte curata da Zoletto). Ci concentriamo sulla seconda.
Che si voglia o che non si voglia, a scuola si gioca, dice Zoletto: studenti e insegnante hanno ruoli (inconsapevoli) di giocatori. In che senso? Nel senso che esiste un patto tacito, ovvero un “consenso operativo” che sta alla base del fatto che l’insegnante insegna e lo studente ascolta: “nessun adulto può interpretare la parte dell’insegnante se non c’è un allievo che cooperi a rendere quel ruolo riconoscibile e riconosciuto”. C’è, insomma, una “collusione”, termine che deriva dal latino e che significa “giocare insieme”. C’è uno stare al gioco da parte di insegnante e allievi che è tale anche quando l’insegnante non riesce ad insegnare perché gli studenti non vogliono ascoltare; “anche nelle situazioni di «circo», anche quando non riusciamo a «tenere» la classe, stiamo di fatto giocando un ruolo assieme agli altri […]. Il «circo» è anch’esso frutto di una collusione fra adulti e bambini, anche se, probabilmente, non piace a nessuno dei due”. Vale quindi la pena che l’insegnante si chieda “a che gioco si sta giocando” in classe, prima di mettere “fuori gioco” qualche studente.
Nella vita di classe ci sono sempre, dicevamo, delle regole, spesso implicite. L’esempio di una regola che l’insegnante è chiamato a seguire è quella dell’imparzialità: “Un insegnante non può farsi influenzare dalle sue inevitabili simpatie per questo o quell’allievo (un allievo non può essere cioè, nel game della classe, un individuo che piace o non piace, ma dev’essere sempre e comunque un piccolo d’uomo da educare)”. L’esempio di una regola che riguarda invece la condotta dell’allievo, è il fatto che è considerato inopportuno che uno studente disturbi compagni e insegnante con continue richieste di attenzione, dato che “come gli/le insegnanti non cessano di ricordare –e come imparano presto, e a proprie spese, i bambini appena inseriti nella suola dell’infanzia–, la socializzazione in classe può essere misurata dal grado in cui i bambini rinunciano a fare richieste del tipo “Guardami!” o “Guarda quello che sto facendo!”; e, viceversa, la non socializzazione è misurabile in base a una maggiore tendenza e insistenza dei riferimenti a se stessi”.
Ora, la regola delle regole, riprendendo il discorso accennato poc’anzi, sta nel fatto che dall’insegnante ci si aspetta che sappia più degli studenti (se così non fosse, i genitori ritirerebbero i figli da scuola) e che gli studenti imparino.
E’ ben vero però che il sapere di più da parte dell’insegnante diventa molte volte motivo di assoggettamento dell’altro: io so e se tu non sai, per il fatto che non ripeti quello che io ho detto e quindi sei «fuori dal gioco»! In questo gioco di potere, le regole sono così rigide da non permettere di giocare: i ruoli sono come cristallizzati: se sai, sai, se non sai, non sai; se sai, sei intelligente, se non sai, sei ignorante. Dice Poletto: “Quando si conosce già la risposta alla domanda che si fa, i giochi di potere e di sapere corrono maggiormente il rischio di bloccarsi in una situazione di dominio”. In altre parole, nel momento in cui un gioco si riduce a sole regole, e perde il suo altro lato caratteristico che è la libertà, e quindi il margine di imprevedibilità dei risultati, il gioco rischia di estinguersi: la classe langue, la motivazione cala, e si studia (o, meglio, non si studia) perché si deve studiare, perché si è costretti a studiare.
Un modello alternativo vede l’insegnante come ricercatore più esperto tra altri ricercatori; il suo sapere non è il fine da trasmettere ma il mezzo mediante il quale si potenziano e sviluppano le abilità degli allievi. Secondo questa prospettiva, si riconosce sì il valore della programmazione, del curricolo, dei contenuti, ma pur sempre nell’accettazione di quel margine di imprevedibilità che è insita nel gioco; il fatto cioè che non tutto sia padroneggiabile, definibile, e che quindi non si possa decidere a tavolino come e quando mettersi a giocare ma si debba essere sempre pronti a ridefinire le regole del gioco. Per certi aspetti è come dire: non si può imparare a giocare a comando: “se nella scuola dei giochi pensiamo di poterci affidare solamente a un metodo, cioè a una strada che ci porti da qualche parte, ci troveremo alla fine in un’aporia. Non andremo cioè, letteralmente, proprio da nessuna parte. E non farà alcuna differenza che il nostro metodo sia basato sul gioco e sul giocare”.
Ci dispiace quindi, anche sul finale, contraddire la lettura di Galimberti, che scriveva a caratteri marcati: “L’istruzione deve essere ludica. E’ il parere di Pier Aldo Rovatti e di Davide Zoletto”. No, non si tratta di introdurre nella scuola una serie di attività piacevoli e divertenti, che prima non c’erano. Si tratta, piuttosto, di creare un spirito di ricerca e di rigore intellettuale sin dalle elementari e fino all’università –che può certo trasmettersi anche tramite attività ludiche, ma non ne è vincolato. Se così è, insegnanti e studenti non giocano più gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri contro le regole, per definirle e ridefinirle nei mille modi possibili che l’esperienza di volta in volta “insegna”.
Insomma un pamphlet sull’intelligenza, la quale è appunto una tra le forme più caratteristiche del gioco –coinvolta tanto nei giochi di potere quanto nei giochi economici, tanto nel giocare con i sentimenti quanto nel giocare in borsa del broker più spietato…

Recensione a cura di Piroclastico

Psicopedagogia e didattica

Titolo: Psicopedagogia e didattica
Autore: Lerida Cisotto
Aditore: Carocci

“Psicopedagogia e didattica” è un libro ottimo per tutti coloro che si avvicinano alla didattica non solo delle lingue e vogliono interrogarsi (ed anche avere qualche risposta) sulle teorie che si sono susseguite riguardo al funzionamento della mente nella fase dell’apprendimento.

L’opera inizia con un interessante capitolo “storico” che parte dal momento in cui il cognitivismo impose la centralità della mente e dei processi di pensiero nel dibattito riguardante la conoscenza. Fu il superamento delle teorie comportamentistiche che immaginavano l’apprendimento solo come la risposta meccanica ad uno stimolo.

Fin dall’introduzione però ci si rende conto di come l’autrice consideri il termine “cognitivismo” ormai sorpassato; un concetto che, superato il momento storico della rottura con il passato, si è troppo schiacciato su una visione dell’apprendimento che è uscita sconfitta dal tempo: quell’idea che avvicinava il funzionamento della mente a quello del computer. “La metafora del computer come modello di funzionamento cognitivo e l’idea della rappresentazione della conoscenza sotto forma di proposizioni logiche hanno fatto prevalere quell’aspetto tecnicistico che, nel tempo, ha offuscato anche l’innovazione più significativa del cognitivismo, ossia il carattere costruttivo del processo di conoscenza”.

E proprio da questo aggettivo, “costruttivo” si muove la ricerca della Cisotto.

Dopo aver ripercorso le tappe delle teorie della mente, da quella modulare di Fodor, a quella delle intelligenze multiple di Gardner, alle tesi del connessionismo di Rumelhart e McClelland, il libro giunge alle considerazioni “ecologiche” di Bateson, che vede la mente come un qualcosa di “aperto” all’esterno, parte di un tutto da cui non può prescindere, correlata e dilatata con un esterno sociale, culturale, naturale.

E Bateson rappresenta davvero un punto di partenza del libro, il superamento definitivo del cognitivistmo fodoriano: “l’Autore – scrive Cisotto – ha insegnato piuttosto a vedere “la struttura che connette”, provocando il nostro pensiero ad andare oltre le inerzie abituali del codice binario illuministico-romantico, la cui dicotomia ancora influenza il nostro moderno immaginario.

Da qui in poi il termine di riferimento del libro è “costruzione” di conoscenza nei contesti e nelle situazioni. L’approccio di riferimento non può che essere quello “socioculturale” per il quale, “nella prospettiva del costruttivismo sociale, pensare significa sostanzialmente situarsi, sincronizzare risorse interne e risorse esterne”.

Più si procede nella lettura del libro più si percepisce la grande influenza del pensiero di Bateson, e anche il calore attraverso cui l’autrice espone le sue riflessioni la dice lunga sulle sue convinzioni.

Dopo aver presentato il contributo di Vigotskij al moderno approccio socioculturale, l’autrice giunge alle parti centrali del suo studio: quella che riguarda il cosiddetto “approccio dialogico” teorizzato da Bachtin e quella sulla didattica centrata sulla narrazione ispirata dal pensiero di Bruner: “La narrazione appartiene profondamente all’esperienza umana e le sue molteplici forme, i racconti, i miti, i drammi, intessono le trame connettive della cultura”.

Fin qui la parte teorica. Ma il saggio della Cisotto non si ferma qui e propone spesso delle vere e proprie attività didattiche da svolgere secondo le teorie esposte. E’ questa purtroppo la parte più debole del libro: le idee presentate sono spesso contorte e poco chiaro e sembrano non tener conto dei molteplici fattori che abbracciano l’insegnamento. Anche i capitoli finali sono orientati più all’aspetto pratico, ma anche qui l’autrice appare distante dai reali problemi degli insegnanti, degli studenti, dell’ambiente classe, del sistema scuola.
Se vuoi leggere la presentazione del libro clicca qui.

Recensione di Carlo Guastalla

Circoli virtuosi (o viziosi?)

Torno or ora dalla fiera del libro di Francoforte e trovo una mail del mio caro amico Piroclastico che mi segnala che dietro sua segnalazione è uscito un articolo che segnala il blog di segnalazioni IL DUE…
…che forza internet.
Comunque… grazie agli amici di

per la bella recensione che trovate cliccando QUI.

Solo… c’è una cosa che non capisco. Nessuno lascia commenti su questo blog.
C’è qualcosa che non va? Qualcosa che non convince? Perché se continua così e mi lasciate da solo io mi annoio…