Il contesto della teoria di Gardner

di Paolo Torresan

Riprendiamo la presentazione del pensiero di Howard Gardner, fornendo il contesto nel quale la sua opera va letta e interpretata.

La teoria delle intelligenze si può considerare come una sorta di catalizzatore di diverse teorie: teorie modulari, teorie interazioniste, teorie evolutive.

Cominciamo dalle ultime, per poi risalire alle prime, che rappresentano il fattore di massimo apporto alla formulazione della ricerca del psicologo di Harvard..

Le teorie evolutive indagano lo sviluppo ontogenetico dell’intelligenza, o meglio mettono a fuoco come l’intelligenza umana si sviluppi nel corso del tempo.

Per Piaget ciò avviene secondo tappe ben definite, in virtù delle quali l’apprendente sperimenta ed elabora i dati dell’esperienza, per poi prenderne le distanze e diventare sempre più capace di astrazione (immaginiamo le conoscenze scientifiche), di reversibilità (immaginiamo le operazioni matematiche), di decentramento (immaginiamo il passaggio da una visione egocentrica a una considerazione del punto di vista degli altri).

Altri autori, come Horn e Cattel, mettono a fuoco il fatto che, nella storia dell’individuo, ci sono processi cognitivi più longevi e altri che decadono precocemente: un anziano per esempio può far fatica a compiere delle operazioni di calcolo complesse mentre la sua capacità di pensare, dettare o scrivere una lettera può perdurare invariata. Horn e Cattel coniano i termini di intelligenza fluida e di intelligenza cristallizzata: la prima è soggetta ad un più rapido processo di senescenza, e riguarda i meccanismi neurofisiologici preposti all’elaborazione di informazioni esterne (l’induzione, la deduzione, la correlazione, l’associazione), mentre la seconda è più longeva e ha a che fare con le conoscenze acquisite con un’educazione formale (per esempio la scrittura).

Gardner concorda con il fatto che l’intelligenza non sia una proprietà statica , ma sia una proprietà dinamica, che si evolve nel tempo. In difformità da Piaget, il quale era persuaso del fatto che il passaggio da tappa a tappa fosse indifferente al sistema educativo, è convinto però che l’educazione, e più in senso lato il contesto, possano incidere sullo sviluppo di un’intelligenza.

Le teorie interazioniste sono contraddistinte dal fatto di sottolineare il valore dell’interazione con gli altri, quindi del contesto, nello sviluppo dell’intelligenza individuale.

Tra di esse spicca l’opera di Vygotsky, a detta del quale ciò che è appreso è frutto di una interiorizzazione di dati ed esperienze mediate da altri.

Molti psicologi, come Pea e Salomon, vanno sostenendo una concezione distribuita dell’intelligenza: la competenza che una persona può dimostrare non è tutta racchiusa nella testa, ma è legata alle relazioni che egli è andato intessendo, agli strumenti di cui dispone, ecc.

Se così è, ha senso parlare del Quoziente di Intelligenza come di una misura valida? Ovviamente no. E cioè: se coloro che abbracciano le teorie evolutive non sarebbero d’accordo nel ratificare l’idea che il QI abbia una valenza predittiva (anticipi cioè i successi/gli insuccessi cui una persona può andare incontro), proprio per il fatto che l’intelligenza ha una natura evolutiva, quanti propongono una teoria interazionista avrebbero da ridire sul suo valore intrinseco. Su questo versante vale la pena di ricordare il nome del “Dottor Sottile” dell’intelligenza, Stephen Ceci, il quale, più di altri autori (compreso lo stesso Gardner), ha saputo evidenziare i limiti dei test psicometrici. Ceci è convinto che il QI ci dia informazioni di natura sociologica e non biologica, ovverosia ci informi del grado di scolarità di una persona, il che non coincide con una competenza intellettuale generale. Ceci fa appello alle ricerche di psicologi degli anni 30, Sherman, Kay e Tyler, i quali evidenziavano il fatto che in età prescolare i bambini ottengono punteggi molti simili nei test psicometrici, poi quelli che accedono all’istruzione pubblica ottengono risultati superiori a quelli che invece, vuoi per il fatto di vivere in aree isolate o per il fatto di essere figli di nomadi, non vanno a scuola. Il QI, quindi, conclude Ceci, non è un valore che misuri l’intelligenza tout court, ma certifica un particolare tipo di competenza, quella acquisita in ambito scolastico. A prova di questo fatto è noto il suo studio sulle capacità di pronostico di alcuni scommettitori di cavalli, molti dei quali sono capaci di un controllo di un numero altissimo di variabili, che impone quindi una competenza matematica elevata, nonostante tuttavia i dati sconfortanti dati che provengono dalle prove psicometriche loro somministrate. Una seconda ricerca di Ceci conferma questa ipotesi: sottoposti ad una prova di competenza spaziale, i bambini danno prova di risultati scadenti o sorprendenti a seconda del fatto che gli oggetti del test siano astratti (rombi, quadrati) o, come in una sorta di videogioco, animati (come farfalle, insetti), ovverosia vicini alla loro esperienza e ai loro interessi (le stesse conclusioni, per inciso, potrebbero essere condivise dai critici all’idea rigida degli stadi cognitivi propugnata da Piaget; tra i quali citiamo Donaldson e Borke. che hanno dimostrato che anche un bambino di due o tre anni è capace di apprezzare la conservazione della quantità o di percepire il punto di vista di un’altra persona, purché si creino contesti che gli risultano familiari).

Tornando a Ceci, non ci pare fuori luogo pensare che a suo modo di vedere il QI sia un test stupido, o meglio sia stupida la pretesa di misurare una competenza assoluta, universale. C’è un pregiudizio, potremmo aggiungere, riportando una riflessione di Gardner in merito, che vizia il test, e cioè il fatto che coloro che lo somministrano (accademici) pensano che le competenze su cui si è costruita la loro carriera (lingua e logica) siano le competenze della mente umana tout court. Se a confezionare un test psicometrico non fosse un professore, che ha studiato per tutta la vita, ma un commerciante, un poliziotto o un artigiano, il test avrebbe la stessa forma? Certamente no. Non avrebbe senso perciò, torniamo a ripetere, misurare la competenza a prescindere dal contesto e dalla forma in cui essa si è formata: un menino de rua di San Paulo molto probabilmente risulterebbe poco intelligente se ci affidassimo al QI per valutare la sua competenza matematica, eppure è altrettanto intelligente di un bambino nordamericano, se si analizza la sua capacità di calcolo nel contesto del commercio minuto a cui è dedito.

Molta storia della psicologia dell’intelligenza è dunque contraddistinta dalla più grossolana delle stupidità: il pregiudizio, appunto. Ceci, con il collega Peters, è noto anche per un altro esperimento: inviò dodici articoli scientifici già pubblicati in altrettante riviste famose e scritti da celebri psicologi statunitensi. L’accortezza fu quella di cambiare il nome degli autori e dichiararli afferenti a dipartimenti sconosciuti (tipo Centro Tre Valli per lo Sviluppo del Potenziale Umano). Solo tre delle dodici riviste riconobbero gli articoli, e, peggio ancora, otto delle altre nove rifiutarono gli articoli!

Le teorie modulari sovvertono l’idea che la psicologia tradizionale è andata sostenendo (eccezion fatta per alcuni psicologi pluralisti, come Thurstone o Guildford), che concepisce la mente come un sistema di dominio generale, capace di operazione trasversali, che prescindono dal contenuto. E’ una visione sostenuta,tra gli altri, da Vygotsky, Piaget e Bruner.

La concezione modulare sostiene l’esistenza di moduli che sono emersi in tempi diversi nella nostra storia evolutiva e che sono preposti ad una elaborazione specifica e differenziata degli stimoli.

Le teorie modulari vanno al di là della distinzione emisferica (emisfero destro, emisfero sinistro) annunciata negli anni ’60 da Sperry, e a lungo studiata da scienziati di fama come Gazzaniga, per affermare l’esistenza di aree neurologiche, di sistemi neuronali, che trattano dati distinti dell’esperienza. Le prime ricerche furono fatte da Hubel e Wiesel alla fine degli anni 60 e quindi negli anni 70. I due, per mezzo di elettrodi posti a contatto con la corteccia visiva di alcuni animali, riuscirono a determinare l’esistenza di cellule specifiche e colonne di cellule che non rispondono a oggetti interi ma a proprietà degli oggetti: una colonna per il colore, una colonna per la forma, una colonna per il movimento nello spazio, una colonna per la consistenza, ecc. Lo stesso discorso vale per i suoni e le proprietà dei suoni. Ciò significa che quando noi percepiamo uno stimolo, come per esempio, un mandarino, le “proprietà” del mandarino (il suo sapore, il suo colore, la temperatura della buccia) e l’aspetto affettivo a cui è connessa l’immagine del mandarino (il ricordo del mandarino che trovavamo nella calza della befana) vengono elaborate in circuiti neuronali differenti. Quando poi attiviamo la memoria del mandarino, succede quello che avviene quando avviamo la deframmentazione del disco rigido del nostro computer: i dati, depositati su registri differenti, vengono ricompattati.

La prospettiva modulare, insomma, rivendica una differenziazione all’interno della memoria (Fuster), delle emozioni (Damasio) e dell’intelligenza (Gardner). Esistono cioè memorie differenti, così come vengono attivati diversi circuiti neuronali a seconda dell’emozione provata (tant’è che una lesione all’amigdala può portare a non provare paura, mentre possono continuare ad essere sperimentate altre emozioni, come la trsitezza e la felicità; diversamente, patologie al lobulo frontale ventro-mediale, comportano una piattezza delle emozioni sociali, come la vergogna), così come, infine, processi computazionali differenti, per lo più agenti sotto la soglia della coscienza, rimandano ad aree neurologiche differenti. Eccoci quindi arrivati al principio, che più di altri, caratterizza la teoria dello psicologo di Harvard: la modularità dell’intelligenza. Anzi, sarebbe ancor più corretto dire: la modularizzazione dell’intelligenza, nel senso che tali moduli non si attivano automaticamente, ma sono potenziali che, aristotelicamente, si trasformano in atto solo a patto che ci sia un ambiente stimolante da un punto di vista cognitivo. Le intelligenze possono svilupparsi come i semi di cui si parla nella parabola evangelica: e cioè se un bambino crescesse senza che nessuno gli rivolgesse la parola, come i bambini abbandonati nella foreste studiati dai medici europei del secolo XIX, è improbabile che impari a parlare. Le intelligenze sono perciò potenziali biopsicologici; Gardner utilizza questo termine a indicare il ruolo decisivo esercitato dall’ambiente, come dichiarato nelle teorie interazioniste.

In breve, integrando la presentazione già definita nel precedente post, sono tuttora stati chiariti da Gardner: il modulo linguistico (in gran parte localizzabile nell’emisfero sinistro –area di Broca, situata nel lobo frontale, deputata alla espressione del linguaggio parlato; area di Wernicke, situata nel lobo temporale, deputata alla comprensione del linguaggio parlato- in parte esteso anche nell’emisfero destro, coinvolto nella decodificazione pragmatica e fonologica dei messaggi); il modulo logico-matematico (in gran parte localizzabile nel lobo temporale sinistro, in parte dell’emisfero destro, per la comprensione dei rapporti tra concetti matematici, in parte nel lobo frontale, per la pianificazione e la definizione degli obiettivi); il modulo musicale (aree variamente distribuite dell’emisfero destro, soprattutto nel lobo temporale e occipitale), il modulo spaziale (aree variamente distribuite dell’emisfero destro); il modulo cinestesico (cervelletto, gangli basali, talamo e corteccia motora); moduli personali, intra (lobi frontali e parietali) ed inter (lobi frontali, lobo temporale dell’emisfero destro); modulo naturalistico (lobo parietale dell’emisfero sinistro). E’ ancora al vaglio dell’autore il riconoscimento di un ennesimo modulo, quello esistenziale (lobi temporali).

2 pensieri su “Il contesto della teoria di Gardner

  1. Ciao sono Erika l’amica di Marcello di Mar del Plata. Interessantissimo il tuo articolo, veramente PIROCLASTICOOO…..muy bueno…besos

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