Simone Weil e l’attenzione

Il vero obiettivo e l’interesse pressoché unico degli studi è quello di formare la facoltà dell’attenzione, anche se oggi pare lo si ignori […].

Il fatto di non possedere né il dono né l’inclinazione naturale per la geometria non impedisce che la ricerca della soluzione di un problema o lo studio di una dimostrazione sviluppi l’attenzione. Anzi, è quasi il contrario. È quasi una circostanza favorevole […].

Molto spesso l’attenzione viene confusa con una sorta di sforzo muscolare. Quando si dice agli allievi: “Ora state attenti”, li si vede corrugare le sopracciglia, trattenere il respiro, contrarre i muscoli. Se qualche istante dopo si domanda loro a che cosa siano stati attenti, non sono in grado di rispondere. Non hanno fatto attenzione ad alcunché. Non hanno fatto attenzione. Hanno solo contratto i muscoli.

Negli studi vi è spesso dispendio di un simile sforzo muscolare. E poiché alla fine ci si sente stanchi, si ha l’impressione di aver lavorato. Ma è un’illusione. La fatica non ha alcun rapporto con il lavoro. Il lavoro è lo sforzo utile, sia o non sia faticoso.  Quando si studia, uno sforzo muscolare del genere, anche se  compiuto con buona intenzione, è del tutto sterile […].  La volontà, quella che, se occorre fa stringere i denti e sopportare la sofferenza, è lo strumento principale dell’apprendista nel lavoro manuale. Ma contrariamente all’opinione comune, nello studio è quasi irrilevante. L’intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio, devono esserci piacere e gioia. L’intelligenza cresce e porta frutti solo nella gioia. La gioia di apprendere è indispensabile agli studi come la respirazione ai corridori. Dove è assente non ci sono studenti, ma povere caricature di apprendisti che al termine del loro apprendistato non avranno neppure un mestiere […].

L’attenzione è uno sforzo, forse il piu’ grande degli sforzi, ma è uno sforzo negativo. Di per sé non comporta fatica. Quando questa si fa sentire, l’attenzione non è quasi piu’ possibile, a meno che non si sia già molto esercitati; allora è meglio lasciarsi andare, provare a rilassarsi e cominciare daccapo dopo qualche tempo. L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si inspira e si espira.

Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono infinitamente piu’ di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: “Ho lavorato sodo”.

Ma, al di là delle apparenze, è molto piu’ difficile. Nella nostra anima c’è qualcosa che ripugna la vera attenzione molto piu’ violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica. Questo qualcosa è molto piu’ vicino al male di quanto non lo sia la carne. Ecco perché ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se’ stessi. Un quarto d’ora di attenzione cosi’ orientata ha lo stesso valore di molte opere buone.

L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto […]. Il pensiero deve essere vuoto, in attesa, non deve cercare alcunché, ma essere pronto ad accogliere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi.

Gli spropositi di una versione, le assurdità nella risoluzione di un problema di geometria, le goffaggini stilistiche e la mancanza di coerenza logica nei compiti di francese, tutto questo deriva dalla fretta con cui il pensiero si è precipitato su qualcosa: ed essendosi così colmato prematuramente, non è stato piu’ disponibile per la verità. La causa risiede sempre nel voler essere attivi, nella volontà di cercare. Per verificarlo basta andare alla radice di ogni errore […]. I beni piu’ preziosi non devono esser cercati, bensì attesi.

da Simone Weil, L’attesa di Dio, Adelphi, 2008, pp. 191-201

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