Venticinquennale della morte di Primo Levi

 

 

 

Quand’ero ragazzotto se m’avessero detto di consigliare un libro di un bell’italiano avrei indicato la “Biografia” di Vittorio Alfieri. Oggi, passante gli anta direi tutt’altro: tutti i libri di Levi. È mia personalissima, modesta e tecnicamente non particolarmente qualificata opinione che gli sforzi di Primo Levi nella sua produzione letteraria rappresentino e provengano da quanto di meglio il nostro paese sa dare e credo che se gli studenti di italiano leggessero Levi scoprirebbero alcuni lati nobili del nostro popolo.

 

Per questo ci piace ricordarlo qui incollando alcune parti di un suo famoso libro, “La tregua”, scelte perché paiono particolarmente adatte ad un pubblico di studenti di italiano L2. Da ricopiare nel vostro computer e didattizzare a piacere.

 

<<Camminavamo nel buio, attenti a non perdere il sentiero, e gridavamo a intervalli. Dal villaggio non rispondeva nessuno. Quando fummo a un centinaio di metri, Cesare si fermò, prese fiato, e gridò: Ahò; a russacchiotti. Siamo amici. Italianski.Ce l’avreste una gallinella da vendere? -Questa volta la risposta venne: un lampo nel buio, un colpo secco, e il miagolio di una pallottola, qualche metro sopra alle nostre teste.Io mi coricai a terra, pianino per non rompere i piatti; ma Cesare era inferocito, e restò in piedi: – A li morté: ve l’ho detto che siamo amici. Figli di una buona donna, e fateci parlare. Una gallinella, vogliamo. Mica siamo banditi, mica siamo dòicce: italianski siamo! Non ci furono altre fucilate, e già si intravvedevano profili umani sul ciglio dell’altura. Ci avvicinammo cautamente, Cesare avanti, che continuava il suo discorso persuasivo, e io dietro, pronto a buttarrni per terra un’altra volta.

 

Arrivammo finalmente al villaggio. Non erano più di cinque o sei case di legno intorno a una minuscola piazza, e su questa, ad attenderci, stava l’intera popolazione, una trentina di persone, in maggioranza contadine anziane, poi bimbi, cani, tutti in visibile allarme. Emergeva fra la piccola folla un gran vecchio barbuto, quello della fucilata: teneva ancora il moschetto a bilanc’arm. Cesare considerava ormai esaurita la sua parte, che era quella strategica, e mi richiamò ai miei doveri. – Tocca a te, adesso. Cosa aspetti? Dài, spiegagli che siamo italiani, che non vogliamo far male a nessuno,e che vogliamo comperare una gallina da fare arrostire. Quella gente ci considerava con curiosità diffidente. Sembrava si fossero persuasi che, quantunque vestiti come due evasi, non dovevamo essere pericolosi. Le vecchiette avevano smesso di schiamazzare, ed anche i cani si erano acquietati. Il vecchio col fucile ci rivolgeva delle domande che non capivamo: io di russo non so che un centinaio di parole, e nessuna di esse si attagliava alla situazione, ad eccezione di “italianski”. Cosi ripetei “italianski” diverse volte, finché il vecchio non cominciò a sua volta a dire “italianski” a beneficio dei circostanti. Intanto Cesare, più concreto, aveva cavato i piatti dal sacco, ne aveva disposto cinque bene in vista a terra come al mercato, e teneva il sesto in mano, dandogli stecche sull’orlo con l’unghia per far sentire che suonava giusto. Le contadine guardavano, divertite e incuriosite. – Tarelki, – disse una. – Tarelki, da! – risposi io, lieto di avere appreso il nome della merce che offrivamo: al che una di loro tese una mano esitante verso il piatto che Cesare andava mostrando. – Eh, che ti credi? – disse questi, ritirandolo vivamente: – Mica li regaliamo -.E si rivolse a me inviperito: insomma, cosa aspettavo a chiedere la gallina in cambio? A cosa servivano i miei studi?

 

Ero molto imbarazzato. Il russo, dicono, è una lingua indoeuropea, e i polli dovevano essere noti ai nostri comuni progenitori in epoca certamente anteriore alla loro suddivisione nelle varie famiglie etniche moderne. “His fretus”, vale a dire su questi bei fondamenti, provai a dire “pollo” e “uccello” in tutti i modi a me noti, ma non ottenni alcun risultato visibile. Anche Cesare era perplesso. Cesare, nel suo intimo, non si era mai fatto pienamente capace che i tedeschi parlassero il tedesco, e i russi il russo, altro che per una stravagante malignità; era poi persuaso in cuor suo che solo per un raffinamento di questa stessa malignità essi pretendessero di non comprendere l’italiano. Malignità, o estrema e scandalosa ignoranza: aperta barbarie. Altre possibilità non c’erano. Perciò la sua perplessità andava rapidamente volgendosi in rabbia. Borbottava e bestemmiava. Possibile che fosse tanto difficile capire cosa è una gallina, e che volevamo barattarla contro sei piatti? Una gallina, di quelle che vanno in giro beccando, razzolando e facendo “coccodé”: e senza molta fiducia, torvo e ingrugnato, si esibì in una pessima imitazione delle abitudini dei polli, accovacciandosi per terra, raspando con un piede e poi con l’altro, e beccando qua e là con la mano a cuneo. Tra una imprecazione e l’altra, faceva anche “coccodé”: ma, come è noto, questa interpretazione del verso gallinesco è altamente convenzionale; circola esclusivamente in Italia, e non ha corso altrove. Perciò il risultato fu nullo.Ci guardavano con occhi attoniti, e certamente ci prendevano per matti. Perché, per quale scopo, eravamo arrivati dai confini della terra a fare misteriose buffonate sulla loro piazza? Ormai furibondo, Cesare si sforzò perfino di fare l’uovo, e intanto li insultava in modi fantasiosi, rendendo così anche più oscuro il senso della sua rappresentazione. Allo spettacolo improprio, il chiacchiericcio delle comari salì di un’ottava, e si trasformò in un brusio di vespaio disturbato. Quando vidi che una delle vecchiette si avvicinava al barbone, e gli parlava nervosamente guardando dalla nostra parte, mi resi conto che la situazione era compromessa. Feci rialzare Cesare dalla sue innaturali positure, lo calmai, e con lui mi avvicinai all’uomo. Gli dissi: – Prego, per favore, – e lo condussi vicino a una finestra, da cui la luce di una lanterna illuminava abbastanza bene un rettangolo di terreno. Qui, penosamente conscio di molti sguardi sospettosi, disegnai per terra una gallina, completa di tutti i suoi attributi, compreso un uovo a tergo per eccesso di specificazione. Poi mi rialzai e dissi: – Voi piatti. Noi mangiare. Segui una breve consultazione; poi scaturì dal capannello una vecchia dagli occhi scintillanti di gioia e di arguzia: fece due passi avanti, e con voce squillante pronunziò: – Kura! Kùritsa! Era molto fiera e contenta di essere stata lei a risolvere l’enigma. Da tutte le parti esplosero risate e applausi, e voci “kùritsa, kùritsa! “: e anche noi battemmo le mani, presi dal gioco e dall’entusiasmo generale. La vecchina si inchinò, come una attrice al termine della sua parte; sparì e ricomparve dopo pochi minuti con una gallina in mano, già spennata. La fece dondolare burlescamente sotto il naso di Cesare, come controprova; e come vide che questi reagiva positivamente, allentò la presa, raccolse i piatti e se li portò via. Cesare, che se ne intende perché a suo tempo teneva banchetto a Porta Portese, mi assicurò che la curizetta era abbastanza grassa, e valeva i nostri sei piatti; la riportammo in baracca, svegliammo i compagni che già si erano addormentati, riaccendemmo il fuoco, cucinammo il pollo e lo mangiammo in mano, perché i piatti non li avevamo più.>>.

 

<<Mi spiegò il suo sentimento: con me era amico, e non mi chiedeva niente, se volevo potevo andare al mercato con lui, magari dargli una mano e imparare il mestiere, ma era indispensabile che lui trovasse un vero socio, che disponesse di un piccolo capitale iniziale e di una certa esperienza. Anzi, per verità lo aveva già trovato, un certo Giacomantonio dalla faccia da galera, suo vecchio conoscente di San Lorenzo. La forma di società era estremamente semplice: Giacomantonio avrebbe comperato, lui avrebbe venduto, e si sarebbero divisi gli utili in parti uguali. Comperato cosa? Di tutto mi disse: qualunque cosa capitava. Cesare, benché avesse poco più di vent’anni, vantava una preparazione merceologica sorprendente, paragonabile a quella del greco. Ma, superate le analogie superficiali, mi resi conto ben presto che fra il greco e lui correva un abisso. Cesare era pieno di calore umano, sempre, in tutte le ore della sua vita, e non solo fuori orario come Mordo Nahum. Per Cesare il “lavoro” era volta a volta una gradevole necessità, o una divertente occasione di incontri, e non una gelida ossessione, né una luciferesca affermazione di se stesso. L’uno era libero, l’altro schiavo di sé, l’uno avaro e ragionevole, l’altro prodigo e estroso. Il greco era un lupo solitario, in eterna guerra contro tutti, vecchio anzitempo, chiuso nel cerchio della sua ambizione trista. Cesare era un figlio del sole, amico di tutto il mondo, non conosceva l’odio né il disprezzo, era vario come il cielo, festoso, furbo e ingenuo, temerario e cauto, molto ingnorante, molto innocente e molto civile.>>.

 

<<Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse colla mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi cha in mezzo all’erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Erano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose, dall’ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie foggie rudimentali e incongrue. – Vengono dalla Bessarabia, – mi spiegò il greco: – sono tutte alle mie dipendenze. Ai russi piacciono così, bianche e spesse. Era una pagaille qui prima; ma da quando me ne occupo io, tutto va a meraviglia: pulizia, assortimento, discrezione, e nessuna questione per i quattrini. Era un buon affare, e anche: qualche volta, moi aussi j’y prends mon plaisir. Mi ritorno in mente, sotto nuova luce, l’episodio dell’uovo sodo, e la sfida sdegnosa del greco: – Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! – No, non avevo bisogno di una donna, o per lo meno non in quel senso. Ci separammo dopo un cordiale colloquio; e dopo di allora, essendosi posato il turbine che aveva sconvolto questa vecchia Europa, trascinandola in una contraddanza selvaggia di separazioni e di incontri, non ho più rivisto il mio maestro greco, ne [sic] ho più sentito parlare di lui.>>.

 

<< Cesare vendette la penna al primo colpo, per venti zloty, senza contrattazione. Non aveva assolutamente bisogno di interprete: parlava solo italiano, anzi romanesco, anzi ancora il gergo del ghetto di Roma, costellato di vocaboli ebraici storpiati. Certo non aveva altra scelta, perché altre lingue non conosceva: ma, a sua insaputa, questa ignoranza giocava fortemente a suo vantaggio. Cesare “giocava nel suo campo”, per dirla in termini sportivi: per contro, i suoi clienti, tesi ad interpretare la sua parlata incomprensibile e i suoi gesti mai visti, erano distolti dalla necessaria concentrazione; se facevano controfferte, Cesare non le comprendeva, o fingeva testardamente di non comprenderle.

 

L’arte del ciarlatano non è così diffusa come io pensavo: il pubblico polacco pareva la ignorasse, e ne era affascinato. Cesare poi era un mimo di gran classe: sventolava la camicia nel sole, tenendola ben stretta per il colletto (sotto il colletto c’era il buco, ma Cesare la teneva in mano proprio nel punto dove c’era il buco) e ne proclamava le lodi con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni inedite ed insulse, apostrofando a tratti questo o quello fra il pubblico con nomignoli osceni che s’inventava sul momento.

 

– Tu, panzone, – disse: – quanto mi daresti per ‘sta cosciuletta? Il panzone rimase interdetto. Guardava la “cosciuletta” con desiderio, e con la coda dell’occhio si sbirciava ai fianchi, mezzo sperando e mezzo temendo che qualcun altro facesse la prima offerta. Poi avanzò esitando, tese una mano incerta e borbottò qualcosa come “pingésci”. Cesare ritirò la camicia al seno come se avesse visto un aspide. – Che ha detto, quello- mi chiese, come se sospettasse di aver ricevuto una offesa mortale; ma era una domanda retorica, poiché riconosceva (o indovinava) in numerali polacchi molto più prontamente di me. – Tu sei matto, – disse poi perentorio, puntandosi un indice alla tempia e girandolo come un trapano. Il pubblico rumoreggiava e rideva, parteggiando visibilmente per lo straniero fantastico, venuto dai confini del mondo a far portenti sulle loro piazze. Il panzone se ne stava a bocca aperta, dondolandosi come un orso da un piede all’altro. – Du ferík, – riprese Cesare spietato (intendeva dire “verrückt”); indi, a maggior chiarimento, aggiunse: – Du meshuge -. Esplose un uragano di risa selvagge: questo l’avevano capito tutti. “Meshuge” è un termine ebraico che sopravvive nello yiddish, e pertanto universalmente compreso in tutta l’Europa orientale e centrale: vale “matto”, ma contiene l’idea accessoria di follia vuota, melanconica, ebete e lunare. Il panzone si grattava la testa e si tirava su i pantaloni, peno di imbarazzo. -Sto, – disse poi, cercando pace: Sto zloty, cento zloti. L’offerta era interessante. Cesare, alquanto mansuefatto, si rivolse al panzone da uomo a uomo, con voce suadente, come a convincerlo di una qualche sua involontaria ma pur grossolana trasgressione. Gli parlò a lungo, a cuore aperto, con calore e confidenza, dicendogli: – Vedi? capisci? non sei d’accordo? -Sto zlotych, – ripeté quello, testardo. -Questo è de Capurzio! – mi disse Cesare. Poi, come colto da improvvisa stanchezza, e in un estremo tentativo di accordo, gli mise una mano sulla spalla e gli disse maternamente: – Senti. Senti, compare. Tu non mi hai capito bene. Facciamo così, mettiamoci d’accordo. Te me dài così – e gli disegnò 150 col dito sul ventre), te me dài Sto Pingisciu, e io te la mollo sulla groppa. Va bene? Il panzone bofonchiava e faceva di no col capo, con gli occhi rivolti in giù; ma l’occhio clinico di Cesare aveva colto il segno di capitolazione: un movimento impercettibile della mano verso la tasca posteriore dei pantaloni. -E dài! Caccia ‘ste pignonze! – incalzó Cesare, battendo il ferro finché era caldo. Le pignonze (termine polacco, dall’ostica grafia ma dall’assonanza così curiosamente nostrana, affascinava Cesare e me) furono infine cacciate, e la camicia mollata; ma subito Cesare mi strappò alla mia ammirazione estatica. – A compà: famo resciutte, sennò questi svagano er bùcio ¬. Così, per timore che il cliente si accorgesse prematuramente del buco, facemmo resiutte (ossia prendemmo congedo), rinunciando a piazzare l’invendibile contasecondi. Camminammo con dignitosa lentezza fino alla cantonata più vicina, poi svicolammo con al maggior rapidità che le gambe ci permettevano, e ritornammo al campo per vie traverse.>>.

 

 

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