Il “programma”

Quando ho cominciato ad insegnare italiano per stranieri, ormai quasi 20 anni fa, pochissimi parlavano di “programma” da seguire. E questi pochi erano visti come degli sfortunati che avevano delle assurde liste di item grammaticali e funzionali imposti dalle istituzioni presso le quali lavoravano.

Proprio in quegli anni cominciava il fiorire della GOF (la Grande Offerta Formativa). Entrava in campo l’Università. Prima il Ditals (rispetto a 20 anni fa l’unica cosa che è cambiata è l’articolo, diventando “la” Ditals), poi il Master Itals, quindi Corsi di Specializzazione post laurea, divenuti poi anch’essi Master di Siena e Perugia, il breve e sfortunato principato della SSIS Ca’ Foscari, e poi tutti gli altri. L’insegnamento dell’italiano a stranieri diveniva più “scientifico”, bisognava basare le proprie pratiche didattiche sui più moderni studi dei più affermati Chiarissimi Illustrissimi.

Gli studi sull’interlingua, che tanto ci avevano ispirato, andavano a formar base di liste di atomi morfosintattici progressivi da insegnare in base alle ipotizzate (ah, no, pardon, verificate) sequenze acquisizionali.

Anche il Quadro Comune Europeo, che nel 2001, si presentava esplicitamente come documento descrittivo e dal carattere NON prescrittivo, veniva poi tradotto, distorcendone la natura e abusandone le intenzioni, in una serie di liste che andavano a formare il Profilo della lingua italiana, definito “strumento integrativo al
Quadro comune europeo di riferimento per le lingue”, la cui integrazione si componeva come segue:
Gli inventari per i livelli A1, A2, B1, B2 del Quadro, declinati in termini di:
– Funzioni linguistiche; – Strutture grammaticali; – Nozioni generali; – Nozioni specifiche; – Liste lessicali.
• L’inventario dei generi, disponibile per le abilità di:
– Ricezione; – Produzione; – Interazione; e con relative – Esemplificazioni di generi per livello.

Sono stati anni di grande discussione: sui forum sociali, blog, mailing list e gruppi di discussione ci siamo sperticati per capire le differenze tra sillabus, curriculum e programma, senza riuscirci mai del tutto. Ma tanto bastava per far sì che ogni direttore di scuola che ambisse a chiamarsi tale, avesse bisogno di mettere al lavoro i suoi migliori insegnanti alla realizzazione di una di quelle robe lì. Eh già, perché poi ogni scuola ha le sue esigenze, i suoi studenti, la sua collocazione geo-linguistico-didattico-approach-student oriented-pincopallino, per cui ognuno doveva (deve!) avere la propria, di quella roba lì.

Ed eccoci alla data di oggi.

Chi non ha un programma chiaro e definito lo sta preparando. Con buona pace dei produttori di materiali didattici (ne so qualcosa…), che ormai si sentono fare sempre le stesse obiezioni:

– Eh, sì mi piace, ma il passato prossimo alla lezione 7 non è proponibile, noi lo dobbiamo fare prima / dopo / al livello successivo, ecc.
– Ah, ok, ma il futuro quando arriva? Si deve fare al primo volume, è troppo importante! (generalmente a questa domanda rispondo: “beh, se è importante allora forse meglio dire “arriverà”… non “arriva”.”)
– Ma gli articoli si fanno tutti insieme / in modo graduale / prima determinativi e poi indeterminativi / ecc. vero?
E altre con cui non intendo tediarvi oltre.

Tutto ciò mi fa pensare che lì’insegnamento dell’italiano a stranieri stia perdendo quella grande propulsione sperimentativa che l’aveva caratterizzato negli anni ’80 e ’90, e che ci faceva dire che la scuola pubblica avrebbe dovuto guardare a noi. Concetti come la centralità del discente, il rispetto e l’ascolto delle interlingue, il lavoro cooperativo, sono solo pochi esempi di quello che il nostro settore avrebbe potuto consegnare ad un settore pubblico schiacciato dietro la necessità di seguire un programma incalzante che affossava qualsiasi deviazione, qualsiasi approfondimento, qualsiasi considerazione dello studente come entità pensante e non come bottiglia vuota, e che ha fatto da sempre della scuola un luogo adatto solo a chi della scuola non ha bisogno.

Fino a pochi anni fa avevamo l’orgoglio di avere nel nostro Paese delle meravigliose scuole elementari, ora nemmeno quelle resistono. Anche se qualche resistenza al degrado si vede ancora, come si può leggere in un articolo di Michela Murgia, che parla di “apprendimento che si genera dentro una relazione”. E individua quattro fattori fondamentali nella scuola italiana, che inibiscono questa relazione. Vi invito a leggere l’articolo, qui, è a dire la vostra, qui sul blog.

8 pensieri su “Il “programma”

  1. Questo scambio mi e’ piaciuto molto e sono perfettamente d’accordo con l’ultimo intervento di Ciro, soprattutto riguardo al lessico-Cenerentola, ai tempi di acquisizione che dovrebbero essere dilatati e al rifiuto del libro di classe che alla fine, diciamolo, e’ quasi sempre basato su una progressione piu’ che altro grammaticale, che pero’ non sempre rispecchia e rispetta l’interlingua degli studenti.
    Allego un link che mi e’ capitato sotto le mani di recente; si tratta di una tesina dell’universita’ di Bergamo. Niente di speciale ma ho trovato interessanti le schede per l’analisi dell’intrerlingua.
    http://www.unibg.it/dati/bacheca/582/38769.pdf

  2. Per ora, più vedo quello che succede in giro più mi convinco di una cosa: una rivoluzione copernicana che si può fare oggi, senza entrare in ‘guerre di religione’ di tipo accademico, e anzi tenendo fuori del tutto gli studiosi dalle decisioni da prendere per la pratica di classe, è quella di andare più lentamente con i sillabi grammaticali. Per questo convincere gli insegnanti, e i direttori didattici, che il nostro lavoro non è soprattutto spiegare regole di grammatica, ma inventare attività ingaggianti che facilitino un uso didattico, quindi per definizione inautentico, della lingua. Sono convinto che molti insegnanti si sentano inutili se non fanno almeno una spiegazioncina di morfosintassi nuova al giorno. Siamo anche noi che inquiniamo la didattica. E per questo non serve chiamare in causa la teoria della processabilità di Pienemann, ma il semplice buon senso dell’insegnante: quando vediamo facce sperse, evidenti segni fisiognomici di difficoltà a collegare quello che è stato spiegato ieri con quello che viene spiegato oggi, tendenza a mollare la presa dell’apprendimento, ecc. dovremmo essere sicuri che stiamo andando troppo veloci. Si dovrebbe insistere su ciò che è poco complesso, e quindi più facile da spiegare e da imparare, per decine di ore prima di passare ad un nuovo argomento che comporta un grado di complessità elevato (passato prossimo, imperfetto/perfetto, trapassato prossimo, pronomi relativi con preposizione, accordi di genere e numoero del gruppo nominale, ecc.); dipende ovviamente molto dalle lingue madri di partenza, ma anche per classi plurilingui si possono individuare campi sempre validi: preposizioni, irregolarità morfologiche dei sostantivi, lessico (questa cenerentola a cui invece bisognerebbe dedicare almeno il 33% del tempo classe), modi di dire, drill di fluenza, correttezza ortografica. Bisognerebbe poi avere il coraggio di suddividere per tempi realmente necessari i problemi morfo-sintattici complessi: quanto tempo dedichiamo a focus su accordo genere numero del gruppo nominale? Se seguiamo solo un libro, nel migliore dei casi cinque, sei ore: pochissimo; e per di più viene in genere affrontato in due/tre blocchi di spiegazioni: maschile/femminile singolare dei nomi con uscita in “o” e in “a”; maschile e femminile plurale dei nomi con uscita in “o” e in “a”; maschile e femminile plurale e singolare dei nomi con uscita in “e”, in genere in tre o quattro lezioni successive. A me sembra semplicemente folle. Il primo passo da fare sarebbe quello di rifiutare il libro di classe anche solo come semplice base del corso.

  3. Ho letto Rastelli l’anno scorso, “Che cos’è la didattica acquisizionale”, molto interessante, ma per quello che ricordo -è stata una lettura a bordo piscina- anche lì inevitabilmente i sembra, pare ecc ecc spuntano come funghi. Condivido la curiosità di indagare i meccanismi di acquisizione di una lingua, ma insomma, qui qualcuno si sta interessando di più a pubblicare libri e, forse, si sta prendendo troppo sul serio. A che serve analizzare le sequenze di acquisizione, per altro in lingua inglese, senza tenere conto delle numerose variabili che intervengono nel processo di apprendimento? Per quanto mi riguarda la smetterei con la pretesa di considerare l’insegnamento della L2 una scienza esatta, non lo è , non lo è mai stata e credo proprio che non lo sarà mai.

  4. Interessante quest’ultimo commento di Maurizio. A me interessa soprattutto in chiave di relazione fra ricerca e pratica di insegnamento. Ultimamente in un convegno, in verità pensato come formazione per dottorandi, ho provato a mettere il tasto su questo punto con Gabriele Pallotti. Faceva una presentazione in cui metteva al centro la mancanza di un minimo lessico della disciplina degli studi sull’acquisizione della seconda lingua. In particolare si parlava di “emersione” di una struttura sintattica nel quadro teorico di Pienemann. Pallotti, molto oppurtunamente e con l’acribia che gli è propria, diceva che gli studiosi debbono trovare un accordo su cosa signfichi “emersione” del participio passato, perché altrimenti si può discutere a lungo scoprendo solo alla fine che si partiva da premesse differenti. Con lo stile un po’ pierinesco che mi è proprio, ho cercato di fargli notare che se non sanno nulla di certo loro che ricercano e leggono per professione, non si capisce perché dovremmo saperlo noi tristi insegnanti. Tanto più noi insegnanti di italiano, che non godiamo della profondità degli studi dedicata all’acquisizione di lingue imperiali quali l’inglese e il francese. Sono stato un po’ bacchettato dall’accademico, che mi ha risposto che in realtà alcune cose certe ormai si sanno e mi ha rimandato alla lettura di Lightbown and Spada, How languages are learned, ultima edizione del 2006 per avere una panoramica delle ultime acquisizioni ‘certe’ della linguistica acquisizionale vista in prospettiva didattica. Lo farò, anche se qui dichiaro che non credo di trovare nulla di veramente nuovo rispetto all’edizione precedente che invece avevo letto. Sospetto che molti saranno gli “It looks like…”, “It seems…”, “According to this experiment…”. E ancora di più sospetto che non vi siano traduzioni operative reali dei principi di massima espressi nel libro. E’ pur vero che ultimamente qualcosa si muove nel qudro della lagunosa glottodidattica italiana. Rastelli va decisamente letto (cosa che mi riprometto di fare da Natale), forse lì si muove qualcosa di nuovo. Tuttavia, fra il dire ed il fare ci passa il mare. Bisognerà poi trovare direttori didattici che difenderanno insegnanti che non passano in 160 ore di corso dal passato prossimo al si passivante. Tutta un’altra cosa. Vorrei esprimere infine un mio punto di vista a cui credo molto. Pure se non abbiamo mai scritto una tesina di ricerca, se non conosciamo metodi statistici di validazione dei risultati, ecc. ecc. noi insegnanti non dovremmo mai sentirci in soggezione psicologica di fronte ai ricercatori universitari che pubblicano libri basati su prove sperimentali. Noi non siamo di certo scienziati, siamo artigiani, ossia abbiamo una sapienza soprattutto empirica, ma in molti casi vasta e raffinata. Come ci insegnano proprio i grandi teorici, non si deve essere in grado di spiegare una regola linguistica per poter dire che si è acquisita. 😉

  5. Insegno italiano agli stranieri da 25 anni ormai, conosco bene il tema proposto e mi è molto caro. Eravamo una comunità di pratica (mutuo l’espressione dalla sociologia, mi sembra la più efficace) e ci stiamo trasformando in quello che meno ci piace della scuola pubblica. Colpa delle università? Non lo so, in fondo la ricerca era esattamente quello che facevamo ogni giorno per arrivare in porto con i nostri studenti. Forse ha contato la spinta proveniente da molti colleghi ad essere “riconosciuti” come pari dei colleghi della scuola pubblica. La mia però è solo un’ipotesi, che non cambia la situazione. Quello che è certo è che fuori dalla relazione non si genera apprendimento, come ben sa chi insegna con il solo programma alla mano e chi verifica l’acquisizione “su strada” degli immigrati lavoratori.
    P.S. Un suggerimento ai produttori di materiale didattico, quando vi contestano la progressione programmatica, proverei a ricordare che l’indice non ci minaccia con un’arma, se vogliamo possiamo andare a salti, magari tenendo conto delle esigenze degli studenti.

  6. Non è una questione di scarsezza di soldi. Anche i paesi dove ci sono tanti soldi nell’educazione pubblica, essa viene strutturata in primo luogo affinché riproduca le differenze sociali relative esistenti, per ovvie ragioni: i figl so piezz e core non solo a Napoli. Dove ci sono soldi, invece di diminuire il numero massimo di studenti per classe, gli regalano i computer, i laboratori i campetti di calcio, le motorette per la spiaggia, ecc. Ed invece le private fanno pubblicità proprio promuovendo che nelle loro classi non si va oltre un numero massimo di studenti.

  7. Un articolo illuminante e sincero.
    Secondo me (ma è la mia personalissima opinione data dalla mia esperienza) il grande colpevole del fatto che si sia persa la spinta a sperimentare è uno ed ha un nome: il denaro.
    Sarò banale e venale ma credo che per avere una certa tranquillità a sperimentare “programmi”, a riflettere sulla propria classe, ad analizzare i materiali, cambiarli e selezionarli ci voglia una tranquillità data dalla stabilità lavorativa ( lavoro sempre nella stessa scuola, conosco gli studenti o posso prevedere chiaramente quelli che arriveranno, ho sperimentato abbastanza incognite relative alla specifica situazione geo-linguistico-didattico-approach-student oriented-pincopallino della mia scuola per poter indovinare la casistica nel futuro…), dalla stabilità salariale (so che ogni mese percepisco uno stipendio che mi permette di vivere senza cercare o correre a dare lezioni in altre scuole o presso privati e quindi ho la serenità mentale e fisica per riflettere di più sui miei studenti ed i loro bisogni) e dal potere contrattuale (so quanto valgo e so quello che è necessario per far funzionare le mie lezioni e le classi che mi saranno affidate: se il principale/preside/dirigente/capo mi chiede un programma/curriculum/inventario/lista che non c’entra niente e che mi fa perdere tempo prezioso so di potergli dire di no, senza rischio d’essere licenziato in tronco).
    Sarò banale e veniale ma questa è l’unica analisi che mi sento di fare.

  8. Hai offerto “su carta” un quadro sintetico delle storture che, purtroppo, noto sempre più di frequente quando lo SPRAR con cui collaboro si confronta con la Scuola (l’ansia da programma). E la sensazione che tutto ciò sia irreversibile è molto preoccupante.

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