Vygotskij alla finestra

Ieri sera un caro amico mi ha raccontato che la maestra di suo figlio, in quinta elementare, gli ha detto “Ho dovuto spostare di banco Marco e metterlo da solo perché ha la brutta abitudine di copiare. Quando la cosa che sta facendo gli sembra troppo difficile non riesce proprio a non cercare aiuto da qualcun altro”.

Il mio amico è tornato a casa e ha fatto una ramanzina a Marco che ha giurato di non sbirciare più quello che fanno i suoi compagni.

Mentre il mio amico parlava pensavo al fatto che forse era la maestra ad aver bisogno di una ramanzina, e così gli ho raccontato un po’ di un signore, anzi, di un ragazzo russo, Lev S. Vygotskij, nato in Bielorussia nel 1896 e morto dopo appena 38 anni a Mosca.

Questo ragazzo 100 anni fa ha elaborato una teoria che qui da noi ha un nome complicato, altisonante e quasi incomprensibile: si chiama “zona di sviluppo prossimale”. Ma non facciamoci irretire dai traduttori! Questa cosa pensata dal giovane russo oggi per molti è una delle teorie alla base della psicopedagogia moderna, grazie all’opera di riscoperta di una delle più fervide menti del secolo appena passato: Jerome Bruner, che ne ha accolto le implicazioni e le ha tenute come riferimento costante per ogni sua riflessione.

Insomma, Vygotskij pensava che ogni bambino avesse in sé delle possibilità di sviluppo attivabili solo in una dimensione sociale, attraverso la collaborazione con i suoi pari e/o sotto la guida di un adulto. Per farla breve, ci sono delle cose che da solo un bambino non riesce a fare, ma magari insieme a un altro sì: confrontandosi, ascoltando, riformulando il proprio pensiero o semplicemente collaborando.

“In realtà è una cosa di buon senso” mi dice il mio amico.

Già, buon senso… ne parla lo stesso Vygotskij, di buon senso…

Naturalmente, chiudo la lezioncina, se Marco stava facendo un compito individuale come verifica di qualcosa, allora la maestra ha fatto bene a metterlo da solo perché in quel caso il bimbo non sta “imparando cose nuove” ma sta “mostrando quello che conosce”, per cui cambia tutto.

Mah, mi dice il mio amico, Marco già da due anni riceve voti continuamente, non c’è azione che non venga valutata. Per fortuna va abbastanza bene.

Già… per fortuna… ma ci sarebbe ancora tanto, tanto da parlare.

Ecco, a lui non l’ho fatto leggere, ma voi nerd di italiano L2/S che leggete queste righe sarete di certo interessati a ripassare un po’ la fonte originale. Ecco quindi a seguire un estratto in cui Vygotskij spiega proprio cos’è la “zona di sviluppo prossimale” del bambino.
Tratto da “Il processo cognitivo”, 1987, Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino (Mind and society. The development of Higher Psychological Processes, Harvard University Press, Cambridge – London, 1978).

Un fatto ben noto e stabilito empiricamente è che l’apprendimento dovrebbe essere accompagnato in qualche modo con il livello evolutivo del bambino. Per esempio, è stato stabilito che l’insegnamento della lettura, della scrittura e dell’aritmetica dovrebbe cominciare ad un livello specifico di età. Solo recentemente, tuttavia, l’attenzione è stata rivolta al fatto che noi non possiamo limitarci a determinare livelli evolutivi se vogliamo scoprire rapporti effettivi tra processi evolutivi e capacità d’apprendimento. Dobbiamo determinare almeno due livelli di sviluppo.
Il primo livello può essere chiamato il livello di sviluppo effettivo, cioè il livello di sviluppo delle funzioni mentali di un bambino che è stato stabilito come il risultato di certi cicli evolutivi già completati. Quando determiniamo l’età mentale di un bambino usando i test, stiamo quasi sempre avendo a che fare con il livello di sviluppo effettivo. Negli studi sullo sviluppo mentale dei bambini si presume generalmente che solo quelle cose che i bambini sanno fare da soli sono indicative delle loro capacità mentali. Diamo ai bambini una serie di test o diversi compiti di vari gradi di difficoltà e giudichiamo il grado del loro sviluppo mentale in base a come li risolvono e a quale livello di difficoltà. D’altra parte, se poniamo loro una domanda con la risposta implicita o se mostriamo loro come il problema va risolto e quindi il bambino lo risolve, o se l’insegnante comincia la soluzione e il bambino la completa, o la risolve in collaborazione con gli altri bambini – in breve, se il bambino chiaramente non riesce a risolvere il problema in modo autonomo – la soluzione non è considerata indicativa del suo sviluppo mentale. Questa “verità” era ben nota e confortata dal buon senso. Per un decennio, perfino i pensatori più profondi non misero in dubbio tale assunto; non carezzarono mai l’idea che ciò che i bambini possono fare con l’assistenza di altri potrebbe essere in un certo senso ancora più indicativo del loro sviluppo mentale in quel che sanno fare da soli.
Facciamo un esempio semplice. Supponiamo che io voglia indagare su due bambini circa la loro inscrizione alla scuola, tutti e due di dieci anni in termini cronologici e di otto anni in termini di sviluppo mentale. Posso dire che hanno la stessa età mentale? Certo. Che cosa significa questo? Significa che essi possono occuparsi dei compiti indipendentemente fino al grado di difficoltà che è stato standardizzato per il livello degli otto anni. Se io mi fermo qui, si potrebbe immaginare che il successivo corso di sviluppo mentale e di apprendimento scolastico sarà uguale per questi bambini, perché dipende dal loro intelletto. Naturalmente, potrebbero esserci altri fattori, per esempio se uno dei bambini si ammalasse per metà dell’anno mentre l’altro non fosse mai assente da scuola; ma in generale il destino di questi bambini dovrebbe essere uguale.
Adesso immaginate che non finisca il mio studio a questo punto, ma che lo cominci. Questi bambini sembrano capaci di affrontare i problemi fino a un livello di otto anni, ma non oltre. Supponete che io mostri loro vari modi per affrontare il problema. Diversi sperimentatori impiegherebbero modi differenti di dimostrazione in casi differenti: alcuni potrebbero cominciare la soluzione e chiedere al bambino di finirla o porre domande con la risposta implicita. In breve, in un modo o nell’altro io propongo che i bambini risolvano il problema con la mia assistenza. In queste circostanze si scopre che il primo bambino può affrontare problemi fino a un livello di dodici anni, il secondo fino a un livello di nove. Ora, sono questi bambini uguali mentalmente?
Quando fu dimostrato per la prima volta che la capacità dei bambini con lo stesso livello di sviluppo mentale di imparare sotto la guida dell’insegnante variava moltissimo, divenne evidente che quei bambini non avevano la stessa età mentale e che il corso successivo del loro apprendimento sarebbe stato ovviamente diverso. Questa diversità tra dodici e otto, o tra nove e otto, è quello che noi chiamiamo la zona di sviluppo prossimale. È la distanza tra il livello effettivo di sviluppo così come determinato da problem-solving autonomo e il livello di sviluppo potenziale così come è determinato attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci (…).
La zona di sviluppo prossimale definisce funzioni che non sono ancora mature ma che sono nel processo di maturazione, funzioni che matureranno domani ma sono al momento in uno stato embrionale. Queste funzioni potrebbero essere chiamate i “boccioli” o i “fiori” dello sviluppo piuttosto che i “frutti” dello sviluppo.

 

 

Un pensiero su “Vygotskij alla finestra

  1. Bella citazione Porfido. Credo infatti che questo sia il valore aggiunto, forse l’unico vero ancora solido e credo difficilmente scardinabile dalle macchine da qui a parecchi anni. La capacità di regolarsi in modo raffinato alla capacità dello studente e di spingerlo fino a dove è possibile, valutando velocemente ed in modo olistico tutti i fattori: sviluppo dell’interlingua, stanchezza, orario, motivazione del giorno, lune storte, idiosincrasie fra compagni, ecc. Da notare anche secondo me che questa capacità dell’insegnante ha la possibilità di applicarsi in modo veramente disteso solo nell’aula, durante la lezione in presenza. Le lezioni in teleconferenza, seppure ottime perché permettono di ridurre i costi, tagliano tanti segnali che un buon insegnante potrebbe interpretare per regolarsi su cosa fare.

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