La scuola? Un anestetico intellettuale

Tutti noi, che scriviamo e leggiamo questo blog, abbiamo sentito, letto, scritto e parlato di tanti glottodidatti, pedagoghi, studiosi, colleghi, di tutto il mondo. Non è il caso di fare nomi, sono tanti e tutti, meritatamente, famosi.
Pochi di voi però avranno sentito o letto di Marcello Bernardi, un pediatra e pedagogo che ha pensato e scritto tanto, fino alla morte avvenuta nell’ormai lontano (ma non troppo) 2001.

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Primo giorno di scuola


Oggi cominciano le scuole.

Vi invito a leggere quello che scriveva Natalia Ginzburg nel lontano 1960 e che mi sembra ancora molto attuale.

Non opprimere i figli con l’idea della scuola (di Natalia Ginzburg)

Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un’importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio.

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La scuola pubblica secondo P. Calamandrei

Oriele Orlando ci invita a riscoprire la figura di Piero Calamandrei, intellettuale a tutto tondo della prima parte del secolo scorso e padre costituente della nostra Repubblica.

Ringraziamo Oriele per farci tornare alle origini, al perché alcune cose sono come sono e alle ragioni per le quali cambiarle è un grave errore.

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Sulla bruttezza

“Bruttezza? Be’, anche nel paese della bellezza, nel paese nel quale si concentra il massimo di bellezza artistica prodotta dall’Homo sapiens sapiens, cioè in Italia, il brutto non manca.
Brutti, spesso raccapriccianti i giocattoli dei bambini. Brutte le scuole: dentro cui si passa nella noia e nell’angustia gran parte della vita fra i sei e i diciotto anni.”

(Alfonso Berardinelli, “Sulla bruttezza”, «Liberal», ottobre 1996).

Un gioco da Primo Levi.

Primo Levi diceva sempre che il motivo per cui molti italiani morivano subito nei Lager era che non capivano i comandi.  Era uno molto sensibile alla questione del linguaggio e soprattutto del contatto fra persone che parlano lingue differenti. Da un suo libro un insegnante di lingua, almeno secondo me, trova molti spunti per interessanti riflessioni. Ve ne propongo uno.

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Imparare una lingua per Christian Puren

Imparare una lingua vuol dire confrontarsi costantemente con la contraddizione, la variabilità (pensiamo ai concetti di interlingua e intercultura).

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Declinazioni lessicali


E’ una citazione. Ma anche un intermezzo. Che esce dal teatrino della politica. Più che per le implicazioni che potrà avere una tale affermazione sulla scena politica italiana, la frase mi ha colpito per la spericolatezza metaforica e l’arditezza dell’analisi linguistica. Sarà che il personaggio è caro a questo blog, ma certo non potevo lasciare scappare questa chicca.

Ma… ecco:

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Sulla correzione

Non c’è peggior insegnante  di quello che, mentre stai partorendo con dolore un concetto giusto, ti fa notare un (presunto) errore lingustico. E questo non lo dico solo io: lo dice chiunque abbia misurato su se stesso e sul prossimo il potere inibitorio e ostruente di un’interruzione, che produce, sulle nostre facoltà di elaborazione intellettuale, lo stesso effetto di un dosso piazzato su un rettilineo mentre si arriva lanciati con l’automobile.

da Andrea De Benedetti, Val più la pratica, Roma-Bari, Laterza, 2009

Simone Weil e l’attenzione

Il vero obiettivo e l’interesse pressoché unico degli studi è quello di formare la facoltà dell’attenzione, anche se oggi pare lo si ignori […].

Il fatto di non possedere né il dono né l’inclinazione naturale per la geometria non impedisce che la ricerca della soluzione di un problema o lo studio di una dimostrazione sviluppi l’attenzione. Anzi, è quasi il contrario. È quasi una circostanza favorevole […].
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Roland Barthes e il linguaggio

“Il linguaggio è una legislazione e la lingua ne è il codice. Noi non scorgiamo il potere che è insito nella lingua perchè dimentichiamo che ogni linguaggio è una classificazione e che ogni classificazione è oppressiva… un idioma si definisce non tanto per ciò che permette di dire, quanto per ciò che obbliga a dire.

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